Una figura infantile, scolpita nell’istante della corsa, spinge con forza e meraviglia una ruota antica, forse un cerchio di ferro o il sole caduto. Il gesto è antico quanto l’uomo: un gioco che diventa rito, il movimento che svela la forma. In quell’arco teso tra corpo e oggetto c’è il segreto della creazione: il mondo si regge su atti semplici, fatti con tutto il corpo e tutta l’anima. È il bambino che gioca a reggere l’universo.
Lui corre, ma non fugge.
Accende il movimento.
È il dio minore della velocità ludica.

Seduta su un trono essenziale, una figura femminile tiene in mano un dado antico, un’astragale, e lo porge in avanti, come un dono o una domanda. Davanti a lei, su un piccolo altare, frammenti d’oro, altri responsi: resti di un gioco sacro, o reliquie di vite passate. È la madre, la dea, la giocatrice. Il gesto è lento e solenne: tirare un dado è sempre un atto di fiducia. E in quell’istante, tra caso e scelta, si manifesta la possibilità del destino.
Una donna porge un dado.
È la domanda, non la risposta.
E ogni giocatore diventa oracolo.
